giovedì 21 dicembre 2017

Scappo di casa e mi perdo nel Sahara - ultimo atto

Sono scappata di casa e mi sono persa nel Sahara veramente

Sono scappata di casa perchè ho rotto l'abitudine col mio mondo, oramai da parecchi anni e quando si rompono le abitudini è sempre un piccolo shock.
A volte bastano pochi giorni per respirare; ho la fortuna di avere l'Abruzzo a pochi passi da casa, così quando il clima e il tempo materiale lo permettono stacco la presa e parto due giorni, ma l'Abruzzo è sempre in Italia e per quanto sia un posto selvaggio e bello non riesce a rompere le abitudini.
Per rompere le abitudini a volte bisogna andare lontani da casa per confrontarsi con culture e abitudini diverse; così ho scoperto mondi distanti e mi sono resa conto che ogni volta che tornavo poi le cose sembravano diverse e così ho continuato e alla fine ho deciso di rompere completamente lo schema di viaggio e ho cominciato a pensare di viaggiare in mondi ancora diversi e così sicuramente cambierà ancora lo schema e così via.
A volte poi non bisogna aspettare di tornare a casa per vedere che le cose cambiano, perchè succede già durante il percorso, come è successo in quest'ultimo viaggio.

Mi sono persa nel Sahara perchè amo i deserti e penso di aver già esaurito le parole per spiegare la motivazione; ma mi sono persa nel Sahara anche perchè era il posto più vicino e più distante che riesco ad immaginare. Vicino perchè geograficamente è dietro l'angolo, distante perchè fino ad oggi mi ero confrontata con culture più o meno simili a me, perchè di questo posto molto turistico in realtà non si sa niente e perchè basta per il momento viaggi in occidente. 
E mi sono persa davvero e questa è una cosa che capita spesso quando si decide di cambiare in continuazione percorso, è una cosa che ho imparato col tempo, ci ho messo anni a capire che era molto più bello perdersi e non seguire un tracciato. 

In questo blog raccolgo pensieri, non mappe. Qui dentro trovate pezzi di vita che nessuno può ripercorrere, perchè ovviamente sono frutto di esperienze personali, ma li racconto nella speranza di far capire che un viaggio così è possibile per tutti
Magari non saranno le stesse esperienze, magari saranno anche più belle di queste, però bisogna partire e non stare solo a leggere; quindi partite con gli occhi aperti e la mente spalancata perchè è un bellissimo modo di perdersi nel mondo, magari con un pò di fortuna la strada per tornare a casa nemmeno la trovate più.

Scappo di casa e mi perdo nel Sahara - ultimo atto

La strada asfaltata è un segno scuro di catrame che visto da un satellite fa pensare che ai suoi bordi non ci sia nulla, in realtà c'è tutto il mondo che ho raccontato in queste ultime settimane.
Io la raggiungo con un sorriso ben visibile, sono felice perchè ho appena realizzato uno dei sogni della mia vita (percorrere almeno un pezzo della Parigi-Dakar) e perchè sono stanchissima e ho bisogno di una doccia, un letto vero e un pasto che non sia contaminato con granelli di sabbia che frantumano i denti ad ogni morso e anche perchè quei 25 litri di acqua che pazientemente ho trasportato in questi ultimi giorni sono finiti.
Mi sento talmente sicura, adesso che sono fuori dalle piste, che anche se il primo villaggio si trova a 20km dal punto in cui mi trovo, quell'ultimo mezzo litro di acqua che ho conservato fino alla fine decido di berlo perchè ho la gola completamente secca e le labbra spaccate dal sole e sono più che certa che in mezz'ora la massimo potrò avere tutta l'acqua che voglio.
Se c'è una cosa che continuo a non imparare da ogni viaggio è che la presunzione è un'arma a doppio taglio: da una parte forse è quella che stimola l'umore e che permette di fare ciò che non si fa nella norma (tipo 100km al giorno, a 40° sotto un sole che brucia e distrugge cellule, con un carico di 50kg posizionato tra schiena e bici), dall'altra fa commettere errori gravissimi (tipo rimanere senz'acqua).

Non è che finita la pista cambia la temperatura e cambia il sole, quelli sono gli stessi, solo che il cervello pensa che essendoci una strada asfaltata allora il pericolo di disidratazione non sussiste.
Il vento che fino a un attimo prima mi spingeva aiutando notevolmente la mia andatura, adesso era esattamente in direzione contraria, ecco così che 20km in 30 minuti diventano 20km in 4 ore e intanto il corpo perde liquidi e di la non passa proprio nessuno.
Quando il corpo si disidrata a me succede che si affacciano alla mente tutta una serie di pensieri assillanti e autoumilianti per cui alla fine gambe e braccia decidono di fare quello che vogliono, ogni due km mi devo fermare e cose del genere.
In realtà il mio viaggio non è ancora finito, mi mancano tipo 700km, quindi bere da un pozzo potrebbe causare dissenteria e mettermi in difficoltà i giorni seguenti, decido di resistere alla tentazione di bere l'acqua che ho raccolto in un pozzo tempo prima, che mi porto dietro con l'unico scopo di utilizzare solo in caso di reale necessità; ma camminando, visto che il vento non mi permette di pedalare, realizzo che all'orizzonte ci sono delle abitazioni e la speranza si riaccende.

Mi trovo così a bussare a casa di una famiglia in cerca di acqua potabile. Mi viene offerta un'anfora dalla quale bevono tutti, l'ho vista in diverse occasioni, quindi sono abbastanza certa che si tratti di acqua potabile, il cervello si rifiuta di avvisarmi di quello che mi è noto da sempre, cioè l'acqua che bevono loro è presa dai pozzi, quindi in realtà non è potabile. Prima di accorgermi del retrogusto metallico e sabbioso ne ho mandato giù più di un sorso e la consapevolezza di quello che stavo ingerendo comunque non ha fermato l'istinto di idratazione.
Qualche ora dopo, appena trovato un posto dove dormire, ho passato l'intera serata chiusa in bagno. 
Si vede che i miei anticorpi sono belli attivi perchè l'indomani sto come nuova, o quello o un miracolo e io non credo nei miracoli.

Zagora è l'antitesi di tutto quello che ho vissuto gli ultimi giorni, c'è di nuovo gente ovunque, ai lati, al centro della strada, indaffarati in commerci vari o seduti all'ombra a non fare nulla, così anche le città o i villaggi successivi, realizzo quindi che sto veramente tornando a Marrakech.
Quello che vedo la mattina quando mi sveglio l'ho già vissuto, ci sono le montagne dell'Alto Atlante che mi aspettano, ci sono di nuovo vecchi camion stracolmi di persone che zigzagano pericolosamente lungo la strada in curva, c'è di nuovo tutta una serie di personaggi assurdi che mi aspetta agli ingressi dei villaggi, alcuni insistono perchè compri i loro oggetti, altri mi spingono, altri mi guardano e basta, però ho la forte sensazione che stavolta lo sto vivendo in modo diverso. Forse mi sono abituata a quel casino, o forse è il mio atteggiamento che è cambiato. Adesso mi fermo a parlare con loro, rido e scherzo, in un villaggio le anziane mi riempiono le tasche di datteri, in un altro una specie di edicola mi regala un piatto di carne in cambio di una chiacchiera, in un altro ancora mi siedo per bere un tè e comunico a gesti con un vecchio sdentato e simpatico, in uno incontro un tipo che avevo incontrato in un altro villaggio e lui si sbraccia e mi chiama per nome e penso che le coincidenze sono davvero assurde, i ragazzini no, quelli continuano a tirarmi le pietre, però adesso che ho scoperto il trucco del lucchetto sembra tutto più facile.

Insomma le giornate passano veloci anche se il vento continua ad essere contrario, mi dicono che lì fa vento forte tre giorni all'anno ed evidentemente il karma deve avermi punita in qualche modo, però adesso che ho risolto i miei conflitti interni nemmeno il vento può darmi fastidio, non fino a quando inizio la salita reale, quella che punta dritto ai passi di montagna.

Ho passato l'intera giornata a pedalare contro vento, 12 ore contro vento, quello che avrei potuto fare in 8 ore al massimo, con tutte le soste anche quelle che non potevo permettermi, l'ho fatto in 12 ore no stop contro questo c. di vento; c'è da diventare pazzi. Le salite bene o male, riuscendo a leggere le carte sai sempre quando finiscono, il vento no, quello può durare un'ora, due o tutto il giorno e tu non lo saprai mai, per questo ti sembra di impazzire.
Arrivo al punto in cui la strada è la stessa che ho fatto un paio di settimane prima. So per certo che esiste un villaggio di nome Ait Ben Haddou, che negli ultimi anni ha fatto il botto e adesso è piena di alberghi di lusso, lo so perchè spacciandomi per guida turistica quella volta che ho incontrato lo spagnolo ho dormito a scrocco in una struttura, che non era a 5 stelle, ma faceva schifo uguale e il solo pensiero di riaffacciarmi li mi disturba più del vento.


La strada divide in due il posto, da una parte gli alberghi, i turisti, i venditori ambulanti che diventano ossessivi, i soldi; dall'altra parte la miseria più totale.
Mi fermo e non capisco niente perchè dopo quelle 12 ore a spingere è già buio e ho il morale sotto terra e non ho voglia di cercare un posto dove dormire. Vedo le luci di Ait Ben Haddou che illuminano il profilo dei ruderi mentre io rimango avvolta dal buio ,penso di temporeggiare ma che quello è l'unico posto dove dormire, sempre perchè piantare la tenda vicino luoghi turistici può risultare pericoloso.

Una ragazza e sua madre mi salutano sedute su un masso polveroso. La ragazza si chiama Zahara, non parla francese, solo le espressioni basilari, ma ci capiamo, in fondo nemmeno io parlo francese, mi invita subito a casa sua, ma prima aspettiamo la sua bambina che torna dalla scuola.
Zahara in realtà non ha una casa, ovvero ce l'ha ma ha una stanza solamente ed è senza tetto; il bagno è delimitato da mattoni forati e la doccia è un secchio di plastica che viene riempito da un pozzo. In quella stanza vivono Zahara, i suoi tre figli, la madre e il fratello. Suo marito lavora a Marrakech, in un riad e si vedono una volta ogni due settimane. Le faccio vedere la cartina ma lei non sa dove ci troviamo, lei non ha idea in che parte del mondo ci troviamo.
Mi chiede se voglio fare un giro nel villaggio e allora percorriamo la strada, più o meno 500m tutta, tra polvere e case diroccate, tutti salutano, anche se si riesce a vedere ben poco, in qualche modo si riconoscono, arriviamo in fondo alla strada e torniamo indietro, Zahara non è mai stata a Marrakech, Zahara non è mai uscita da quella strada.
Tra tutte le notti in cui ho dormito a casa di sconosciuti quella per me rimane la più assurda.

Pochi sanno che cosa è la notte.
Di notti ne ho vissute tante durante i miei viaggi, spesso insonni, per questo la conosco bene.
Per la maggior parte di noi è un tempo vuoto, il tempo in cui si dorme e tutto passa sopra.
Eppure le notti non sono tutte uguali. Ogni fase della notte si differenzia per sfumature, dell'aria, del colore del cielo, degli odori, della posizione delle stelle e della luna, dell'intensità del vento; non a caso per gli antichi greci e romani la notte si divideva in quattro parti, corrispondenti alle Vigilie.
La prima parte era il Vespera appena dopo il crepuscolo, un momento dove i suoni e i rumori sono il prolungamento del giorno appena trascorso; poi c'era la Media nox dove il buio regna totale ma profumi e odori conservano ancora un certo tepore, il corpo si rilassa e la natura prende il sopravvento; il Gallicinium era l'ora del canto del gallo a notte profonda, dove le voci diventano sussurri e la mente vaga intorno ai ricordi della giornata: la conclusione avviene al Conticinium, quando il gallo tace e l'inquietudine prende il sopravvento, appena prima dell'alba le ore in cui nulla si muove.
Di notte avvenne l'ascesa al cielo di Maometto, in sella a Buraq, il destriero magico dal volto di donna che lo portò fino al cospetto della pura volontà di dio; sempre di notte il cavaliere medievale di preparava all'investitura, indossando abiti bianchi per purificarsi con lunghe ore di veglia, solitudine e preghiera; e ovunque nel mondo la notte appartiene agli spiriti e media il contatto tra l'uomo e il soprannaturale. (cit. Paolo Novaresio)
Per approfittare della notte bisogna essere liberi da impegni pratici e mentali e questo avviene sopratutto quando si è lontani da casa, per questo la notte appartiene anche ai viaggiatori.
Ci sono notti fredde, notti tiepide, brevi o che sembrano non finire mai, dolci o terribili. Ma nella mente del viaggiatore la notte è sopratutto un luogo, un posto dove ci si ferma, una tappa lungo il percorso; spesso solo un'immagine, un frammento di mondo rimasto impigliato nello sguardo.
C'è chi nella notte ricorda la cresta sinuosa di una duna illuminata dalla luna, nel bel mezzo del Sahara, niente fuoco, nè luci, tutto intorno la terra scricchiola, si contorce come fosse viva; sono i Djenoun, dicono i Tuareg, gli spiriti delle terre desolate che si ridestano, e io posso crederci, anche se non sono portata a crederci, solo perchè è tremendamente vivo tutto quello che sta intorno a me.
C'è chi ricorda il rumore delle pareti di ghiaccio, quel ghiaccio stridulo che si assesta e riempie il vuoto della notte, che altrimenti sembrerebbe assente, ma si può scrutare l'oscurità fin che si vuole, non esiste paesaggio, la notte ha inghiottito ogni cosa, del mondo non resta altro che il luccichio di quella montagna, immateriale.
C'è una gerarchia delle notti: ce ne sono di ordinarie e importanti, e poi ci sono le notti fatali, che coincidono con l'accadere di qualcosa, sia un evento, un pensiero o un incontro, ma quelle notti non si possono esprimere, nè raccontare.

Mi hanno offerto un tè perchè era tutto quello che avevano in casa, siamo andati a dormire alle 9 di sera perchè non hanno candele per fare luce, avvolta dentro un materasso, senza un tetto sopra non riuscivo a vedere niente perchè le luci degli alberghi a 18 stelle dall'altra parte della strada, dove i soldi girano e ne girano troppi, inquinano il cielo e non si vedono stelle, non riuscivo a dormire perchè continuavo a chiedermi come è possibile un simile paradosso: due mondi opposti e paralleli divisi da una strada.

Di notti insonni ne ho vissute tante, ma questa è una di quelle che posso definire fatali






venerdì 15 dicembre 2017

Scappo di casa e mi perdo nel sahara - le piste

Fino a qualche mese fa ero convinta che nel mondo abbiamo tutti un posto geograficamente rimandabile alla nostra posizione attuale in un punto determinato della sfera terrestre.
Cioè: se io in questo momento scrivo da casa mia, so che sono in questa via, a Roma, che si trova in Italia, in un pezzo di terra che più o meno ha una forma che riesco a ricordare o a ricondurre ad uno stivale.
E invece non ci sono mai certezze.
Il Sahara è quel deserto, infinito, del quale una piccola striscia passa al confine tra Marocco ed Algeria, capire esattamente quale sia il confine è, secondo me, molto difficile.

Se confrontate google maps o qualsivoglia strumento di mappatura con una carta geografica aggiornata vi accorgerete che una dice una cosa e l'altra completamente l'opposto.
Capire in che parte del mondo mi trovo a volte è importante, sopratutto se si tratta di frontiere tra paesi non proprio amici. Il giorno in cui dopo le piste sono arrivata a Zagora ho letto un giornale dove era scritto che nel Sahara occidentale, poco sopra la Muritania erano esplose delle mine antiuomo: il deserto è terra di nessuno da sempre, ci sono deserti inabitati e ci sono deserti che oltre i pericoli naturali riservano sorprese umane poco piacevoli.




L'altro incontro che ho fatto a Merzouga è stato con Omar.
Avevo deciso che me ne sarei stata tutto il giorno seduta a non fare niente perchè sentivo la necessità di recuperare, perchè l'indomani sarebbero state piste.
Me ne stavo seduta a bere un tè in attesa che la giornata passasse rapida, ma molto preoccupata proprio perchè se stai seduto a non far niente la giornata non passa per niente in modo veloce. Mi guardavo intorno irrequieta in attesa che qualcuno o qualcosa cambiasse in destino di quella mattina e in questo paese non è per niente difficile trovare qualcuno che lo faccia.
Omar è alto due metri, scuro come la pece, con una voce molto simpatica e ha tutti i denti neri, come del resto quasi tutti in quella parte del Marocco, mi hanno spiegato che è l'acqua troppo calcarea.
E' da qualche minuto che ci spiamo e alla fine non ricordo bene chi di noi due comincia ad attaccare bottone.

Vi dicevo delle difficoltà incontrate per filmare o fotografare in generale, loro sono molto restii alle riprese ed è anche giusto che sia così.
Da 12 anni passo per il centro di Roma, ogni mattina: colosseo, fori imperiali, piazza venezia, largo argentina etc... che siano le 7 del mattino o le 20 di sera c'è sempre un gruppo di giapponesi che scatta non una ma 17 foto in contemporanea intercettando la traiettoria tra la strada dove passo e il monumento che c'è di fronte; quindi facendo un calcolo veloce ed approssimativo esistono 12x365 = 4380 foto di me assonnata, scazzata, felice, depressa, sorridente, scapellata, esaurita o rilassata.
A volte capendo l'istante esatto in cui il dito applica la giusta pressione per scattare riesco anche a mettermi in posa con una smorfia, giusto per cercare di rendere diverso quel momento e perchè penso, anche se i giapponesi sono quasi privi di senso dell'humor, di fargli fare due risate quando tornano a casa e rivedono le foto, o quello, o si incazzano perchè gliel'ho in qualche modo rovinata per sempre (perchè quando tornano?), in ogni caso sarà un foto diversa.
Ma io vivo in una società occidentalizzata, dove anche il colosseo è messo in vendita ogni giorno, dove tutto è una macchina che deve girare alla perfezione in modo che nessuno si faccia male e che tutti vivano un'esperienza unica e indimenticabile, perchè tornino a casa con le loro foto e ricordino di questa parte del mondo le vecchie rovine romane e un buon piatto di pasta servito al tavolo dell'osteria.

Adesso mi trovo in una parte del mondo invece dove le strade non sono illuminate e la mattina passando in mezzo ai villaggi incontro dei teli bianchi e sotto questi dei corpi privi di vita di donne, uomini, a volte bambini che attraversando la strada al buio sono stati investiti, ricordando ancora una volta che il valore di una vita non è uguale in tutto il mondo.
Qua molti oltre a non avere un'età anagrafica, non hanno mai visto una macchina fotografica, non hanno idea nemmeno di dove si trovano esattamente collocati, è giusto che mi guardino schifati come faccio io con i giapponesi davanti l'altare della patria, è giusto che in molti casi non ho nemmeno tentato di uscire fuori il mio curioso oggetto per spiarli.

E' per questo che di necessità si fa virtù: allora mi improvviso inviata TV per un noto canale italiano, anche se a loro poco importa quale sia; sto raccogliendo materiale per un documentario sui luoghi del deserto, spacciando il mio fedelissimo tesserino universitario scaduto 6 anni fa (ma che mi permette ancora grazie alla distrazione di molti controllori di accedere gratis alle mostre) per un pass TV. Io non so bene come ho fatto, ma in qualche modo ha funzionato.

Omar sembra entusiasta dell'idea e decide di farmi fare un giro sul suo "ciao" molto anni 90 per portarmi a visitare una serie di villaggi nei quali non sarei passata in bici.
Non sono una che fa l'autostop, anche se mi piacerebbe farlo un giorno, per questo sono abbastanza intimorita dalla proposta, ma ci metto un millesimo di secondo a dargli una risposta affermativa, in fondo erano più di 30 minuti che rispondevo a domande su un lavoro che non ho mai fatto.

Così passiamo per una diga costruita decenni fa dove non passa nessun fiume, questo fiume è morto e io ho una vaga idea del perchè, ricordando le bottiglie di plastica NEslè che mi proto dietro; passiamo per dei villaggi diroccati che si confondono con la sabbia intorno perchè hanno lo stesso colore e probabilmente perchè siamo in tarda mattinata nessuno ha il coraggio di uscire fuori, quindi sembrano deserti, o forse lo sono realmente; passiamo per un villaggio dove si suona, perchè la gente che nasce li fa questo di mestiere e si esercita tutta la vita per partecipare a un prestigioso festival di musica indigena che si tiene a Merzouga una volta all'anno (si vocifera che anche Henrix, decise di visitare questi luoghi per contaminare la sua musica); passiamo per tanti luoghi che a me sembrano tutti uguali, ma ognuno di essi ha una storia diversa e sono felice di aver incontrato Omar anche perchè lui è uno che il deserto lo conosce e sa esattamente quello che sto per fare.
Andiamo a casa sua perchè ha deciso di ospitarmi.
Non mi chiede il motivo del perchè l'indomani cambierò direzione per prendere le piste, mi guarda e basta, con la consapevolezza di un uomo che è stato forgiato dal deserto e questo me lo dice la sua pelle, completamente rovinata dal sole.
Mi dice che uno dei suoi migliori amici, quello che lo ha aiutato a costruire la casa, è spagnolo e ogni tanto gli procura dei motociclisti per delle escursioni lungo la Abrid n Ighrem, ovvero la pista che collega Merzouga a Zagora, è molto serio, ma allo stesso tempo ride e mi dice che se proprio deve morire un giorno lo farà li in mezzo perchè c'è un silenzio bellissimo (non che a Merzouga ci sia alcun rumore molesto, ma forse c'è ancora troppa gente per i suoi gusti).
Dopo cena ci sediamo su un tappeto in terrazza, da qua si vedono i profili delle case, la più alta sarà sei metri, sopra ancora la luna che illumina bene tutto quanto; mi illustra dettagliatamente i posti dove in caso di necessità posso trovare acqua, mi spiega che non dovrei incontrare anima viva, poi mi che quello che sto per fare è molto difficile, per via del vento, della sabbia, del caldo, della strada che molto probabilmente perderà la sua direzione e io con essa, ma lo tranquillizzo dicendogli che non è la prima volta che faccio questa cosa, che io però non sono come lui, non voglio morire nel deserto; ridiamo tutti e due, in modo nervoso, poi mi chiede se può abbracciarmi.

E pista fu!


Probabilmente nel mondo ci sono luoghi che rimangono ancora oggi inesplorati, forse altri ancora non lo saranno mai, ma io ho sempre desiderato, come ogni bambino degli anni '80, di fare l'esploratrice e con il 99,9% delle probabilità arrivata a questo punto della mia vita non la farò mai, però ho deciso di fare la cosa che più si avvicina a questa (diciamolo pure: perversa) fantasia.

Quando si varca la soglia dei deserti una forte sensazione di pericolo, mista a paura, adrenalina, vuoto esistenziale, fa girare vertiginosamente la testa, noi non ci abitueremo mai al fatto che basta niente per smettere di esistere, e invece in questi luoghi la sensazione è molto forte e prepotente, ti sbatte in faccia una realtà che non siamo abituati nemmeno ad immaginare.
Di questi luoghi una delle cose che mi affascina è la consapevolezza che di tanti milioni di esseri umani che vivono nel mondo, una percentuale bassissima, quasi inesistente vedrà mai quello che vedo io in quel momento, o sentirà la sensazione di mancanza di aria in uno spazio così grande. All'opposto di tutto questo c'è il colosseo, che in quel momento, per assurdo, nonostante sia la cosa che vedo tutte le mattine, non si trova in nessun angolo del mio cervello.
Ancora più forte è la consapevolezza che se arrivata a metà strada dovessi in qualche modo accorgermi che non è stata una buona idea, tornare indietro sarebbe comunque la stessa cosa che proseguire e mi accorgo che in quel momento non mi importa più niente di aver litigato con una persona, di essere a un punto morto col lavoro, di non poter mai fare un progetto a lungo termine, di avere una vita precaria, perchè in quel preciso momento tutto quello che è la mia vita, nella norma, è lontana da me esattamente quanto la strada asfaltata che se non raggiungo è comunque inutile, ed è così superflua che me la dimentico, non sono più io, lì, in quel momento non possono esistere indecisioni.
Questo è il deserto, a molti potrebbe sembrare polvere e nient'altro, per me è semplicemente Alienante.

Ovviamente mi perdo, è un classico, e mi perdo perchè la pista al secondo giorno di cammino è completamente insabbiata.
Se mi fossi persa nel 1999 a Pechino, quando non esistevano nè maps, nè translate, avrei cercato di guardare i nomi/idiomi (se esistono) delle vie e confrontarli col cartaceo; ecco nei deserti funziona più o meno così, solo che i nomi delle vie sono le posizioni del sole e della luna e l'indirizzo finale è un villaggio che probabilmente è solo un nome nella mappa ma che in quel momento rappresenta un biglietto della lotteria sul quale si puntano tutti i risparmi di una vita, e in qualche modo funziona sempre.
Curioso è a questo punto il fatto che io non ho assolutamente senso dell'orientamento, tanto che dopo 12 anni riesco ancora a perdermi a Trastevere, ma in queste situazioni escono fuori tante abilità che pensiamo di non avere, forse si chiama attaccamento alla vita o non so che altro.
Fezzou è il mio biglietto della lotteria, ed è vincente: ho vinto un giorno in più in questo mondo, che può piacere o fare schifo, ma che rimane l'unica certezza fino a questo momento.
Fezzou non è abitato, nel senso comune della parola. Ci sono delle tende e dentro le tende vivono delle persone.





Che ve lo dico a fare ...




Riesco a cenare e a dormire con questi stranissimi personaggi usciti da un romanzo di Salgari, loro parlano solo in berbero e la stanchezza è troppa, non c'è comunicazione, ma c'è comunque tutta l'ospitalità di sempre.
Non ho mai smesso di girare con un coltello in tasta, nè nei viaggi precedenti, nè in questo e non capisco tutt'oggi se la mia è una paura giustificata e faccio bene o se ho ancora molto da imparare, ma ogni azione alla fine è la conseguenza di un'altra più o meno grave e cambia poi tutto il resto.

La mattina mi sveglio decisa a barattare un pezzo di pane per soldi o vestiti che non utilizzo.
E' molto presto, ma sono sicura che le donne sono già indaffarate a cucinare.
Il sole si è alzato da poco e un gruppo di ragazzini, tre, di massimo 14 anni, mi guarda qualche metro più in fondo. La sensazione che provo non mi piace, perchè mi guardano con occhi strani, uno di loro ridacchia, ma è un sorriso poco innocente. Non so come comportarmi.
Alla fine quello che sembra il "capetto" si stacca dal gruppo e mi affianca poggiando una mano sulla mia spalla sinistra. E' questione di istanti, gli sorrido perchè non so cos'altro fare, e in un attimo la sua mano sul mio seno che stringe come se avesse un tentacolo al posto del palmo, si posiziona dietro di me e stringe più forte; comincio a urlare contro di lui, non so in che lingua e non so cosa, credo italiano, e tento inutilmente di tirargli dei calci da dietro, ma nulla, non molla la presa. Non capisco dove vuole arrivare, anzi, non voglio nemmeno saperlo. Non so esattamente quanto tempo passa, credo pochissimo, dal suo gesto per me irrispettoso, al mio, brutale, avventato, forse poco pensato. Il coltello che uso per tagliare la verdura, la frutta, la carne, che uso per cucinare quando mi accampo all'aperto, adesso ha un nuovo utilizzo: la difesa. Con un gesto deciso appoggio la lama sul dorso della sua mano, lui non lo sa, ma sto per farlo e non ci penso un attimo ma faccio scattare il coltello, in modo parecchio deciso, e questo disegna un filo sulla sua carne, dal quale comincia ad uscire del liquido rosso, siamo tutti fragili e io non volevo, ma non conosco le sue intenzioni ed è una sensazione stranissima. Il mio corpo non mi ha dato tempo di pensare.
Si stacca, incredulo, realizza in pochi attimi che sul dorso della sua mano adesso c'è un segno profondo, il ragazzino con lo sguardo vissuto, da duro, sicuro delle sue azioni, in un attimo è diventato di cristallo, si è spezzato, comincia a piangere. 
Giusto pochi secondi e le nostre vite sono cambiate per sempre

Io non mi sento in colpa, mi sento sporca; le sensazioni di lui invece non le conosco, immagino che la realtà si sia schiantata contro in maniera atroce, come se avesse preso una boccata di aria ghiacciata all'improvviso, non riesce nemmeno a gridare, continua a guardare la mano e a tenere stretto il polso con l'altra. La sua espressione da ghigno malizioso, anche un pò ebete, adesso si è trasformata in paura, non una paura forte, ma più un non capire cosa stia succedendo. Non so che cosa teme di più in quel momento, se un futuro immediato che non conosce o il giudizio di qualcuno che può fargli ancora più male di me, oltre il fisico, ma la sua attenzione non è più rivolta al mio corpo, sono sicura che a spaventarlo è stato quello che non poteva aspettarsi e allo stesso modo anche io sono spaventata, non so cosa succederà adesso che tutti sanno, tra quelle tende.
Una donna, coperta integralmente, vedo solo i suoi occhi, chiusi dentro una fessura di tela, corre verso di noi. Per tutto il tempo sono rimasta immobile, ma appena la vedo i miei muscoli si sciolgono, il cervello riprende a girare e mi guardo intorno, la bici che avevo lasciato cadere per prendere il coltello adesso potrebbe servire per scappare, dove non so, sono in mezzo alla sabbia, sarebbe solo un oggetto che mi rallenta. Lei è comunque più veloce dei miei pensieri. Con una mano afferra il braccio del ragazzino, con l'altra gli tira uno schiaffo, un schiaffo che lo fa cadere a terra. Io continuo a non realizzare cosa sta succedendo, penso solo che non conosco questa gente, che non parlo la loro lingua, che non so come spiegare l'accaduto e non riesco nemmeno a immaginare se il comportamento di quel "piccolo uomo" sia nella norma o sia solo frutto di qualche strana idiozia passata nel cervello in modo frammentario e che lui non ha mai pensato di ordinare in modo logico. Il ragazzino si rialza e scappa via, questa volta oltre le lacrime un lamento. La donna mi viene incontro e io rimango ancora ferma, posso solo immaginare i miei occhi, forse non ho mai avuto quello sguardo, lei si inginocchia, si inginocchia e senza mai toccarmi vomita un fiume di parole. Allora capisco, capisco che mi sta chiedendo scusa al posto di quello che secondo me dovrebbe essere suo figlio, fa qualcosa che non dovrebbe fare lei, ma io non riuscirò mai a spiegarli quello che adesso vorrei come conclusione di questo episodio, unico ed isolato.
Non parlo con nessuno di quanto è successo, anzi il fatto che il cellulare non prenda in qualche modo mi fa passare di mente una probabile comunicazione con qualcuno che conosce la mia lingua, che io comunque non voglio, non prima di aver cercato di capire cosa è successo.
Stupidamente l'istinto mi dice di controllare i miei vestiti, come se fossero complici di quanto si era appena svolto: indossavo una camicia a maniche lunghe, una jeans nero fino alle caviglie e una maglietta a coprire il viso per non far passare la sabbia, le uniche parti scoperte le mani. Mi rendo conto di quanto sono ridicola a pensare che sia stato il mio abbigliamento la causa di quanto accaduto e tento di giustificare il ragazzino. Però i mille "perchè" mi ronzano in testa, eppure oramai ho visto abbastanza dinamiche familiari da capire che la donna è l'immagine al centro, la regista della famiglia, quella a cui tutto fa capo, quella che genera e quella che cresce, e allora perchè?

Qualche giorno dopo quello che penso è che è stato uno stupido caso, che probabilmente non aveva mai visto una persona diversa da lui, che non appartiene a quei luoghi, che non ha nome e che non tornerà mai più; probabilmente ha pensato a me come ad un'entità anonima, senza famiglia; probabilmente ha pensato che quella bravata un giorno poteva essere raccontata e che lui potesse distinguersi da tutti gli altri; probabilmente stava maturando l'idea già dalla sera prima quando mi aveva vista mangiare assieme agli altri in tenda; probabilmente da solo non lo avrebbe mai fatto, probabilmente il gruppo ha fatto la sua parte; probabilmente anche senza coltello sarebbe finita allo stesso modo; probabilmente sono le stesse dinamiche che accadono anche qui, da dove scrivo adesso, ma che le circostanze hanno reso tutto più istintivo, primitivo; probabilmente sono tantissime cose assieme, delle quali non mi rendo conto nemmeno io, ma la sensazione che è rimasta è stata di aridità totale, per tutto il giorno senza dire una parola cercando solamente di capire dove avevo sbagliato, anche se io non ho sbagliato.

I giorni a seguire dopo le piste, dove non ho avuto modo di fare ulteriori incontri, alla vista di un gruppo di ragazzi che mi correvano incontro vedendomi da lontano, rallentavo il passo per far finta di cercare qualcosa nelle borse, loro si fermavano e una volta capito che la mia era una minaccia finta riprendevano a seguirmi fino a quando non tiravo fuori un lucchetto abbastanza pensante e facendolo oscillare sopra la testa vedevo che si fermavano nuovamente e così fino a quando non uscivo dal raggio di azione. E' il ritorno alla civiltà, penso, il coltellino intanto è finito in fondo alla tasca. Ripenso a quel ragazzo, pesava 30kg forse, forse un pò di più, oramai sono passati diversi giorni, chissà se il taglio che gli ho fatto è abbastanza profondo da resistere un decennio, chissà se ogni tanto guardando la mano si ricorderà di quello che ha fatto e cosa racconterà ai suoi amici, chissà che cosa resterà di quell'incontro, io di lui però mi ricorderò per sempre.

Ma questo pezzo di terra non può conservare un ricordo legato solamente a lui, ho attraversato un pezzo della Parigi - Dakar, in bici, da sola, in completa e totale autonomia, non sono sopravvissuta alla bravata di un ragazzino, sono sopravvissuta ancora una volta al deserto e questo è quello che alla fine sarà il mio ricordo.


venerdì 1 dicembre 2017

Scappo di casa e mi perdo nel Sahara - i berberi

Questa vita sarebbe davvero noiosa se scappando dalla routine lavorativa dovessi andare incontro alla routine di viaggio

Sveglia all'alba
Colazione
Igiene intima
Impacchetta tutto
Parti col freddo
Ti fermi col caldo
Abuso di zuccheri
Vento in faccia
Sete
Mi sono persa
Torna indietro
Trova un posto dove dormire
Cena con gli avanzi del giorno prima
Dormi
Ripeti di nuovo fino alla fine del viaggio

Per fortuna non succede mai, c'è sempre quella variabile al di fuori del perdersi in luoghi che sembrano astratti, che mi fa sentire viva, non è solo il paesaggio multiforme anche se a volte davvero ostico, ma sono le persone.
Comincio a vivere le loro storie, per quello che riesco, perchè comunque non ho il loro vissuto alle spalle, ma la cosa che in questo momento ci unisce è la certezza che del domani non si ha certezza.
Mi raccontano di come vivono, faccio domande su cosa si aspettano, la risposta è sempre la stessa: sono nato qua e morirò qua. Non c'è gioia o dolore quando qualcuno muore, è una persona in meno, non esiste culto dell'ego in un posto dove tutti sono utili e nessuno è necessario; non c'è posto dove nascondersi dalle noie quotidiane, non c'è spazio per stare male, non c'è nemmeno un medico se si sta male; le case sono fatte di paglia e argilla, ottimo per i mesi davvero caldi, fragili se dovesse piovere, ma qua nessuno aspetta la pioggia, mi raccontano che una volta ha nevicato, forse negli anni '80, non sanno cosa sono i cambiamenti climatici, non si pongono il problema, loro vivono senza acqua e se riescono a chiamare casa un posto fatto di polvere e vento possono resistere a tutto e di questo sono molto fieri. Mi viene in mente di quei luoghi che ho visto privi di vita, dove una volta vivevano gli indiani di America o gli aborigeni australiani, mi chiedo quanta cultura è stata assassinata.
Sono persone senza età, perchè quella anagrafica non la conoscono, possono registrarsi anche anni dopo la nascita perchè il "comune" è lontano, allora se qualcuno capita da quelle parti fa il favore e registra le ultime nascite, così se chiedi loro quanti anni hanno o quando li compiono la risposta rimane approssimativa, come la vita che fanno, ma tutto questo a modo suo è affascinante.




Incontro Aasmae.

In realtà è lei che incontra me. Una giornata molto calda, il sole abbrustolisce velocemente le parti scoperte, non so più come coprirmi. E' la prima volta che parlo con una donna da quando sono atterrata. E' difficile incontrarne, perchè si nascono bene, sotto tetti domestici. La mia sorpresa è grande nel ricevere un invito da parte sua ad entrare in casa e mangiare qualcosa, perchè mi è sempre capitato di parlare con uomini e pensavo che le donne avessero semplicemente timore. In realtà si avvicina sicura, mi sorride e mi da un bacio sulla spalla.

La differenza tra uomini e donne è abissale:
Un uomo si sarebbe prima avvicinato con una presenza importante, lasciando lo spazio di un metro tra i nostri corpi, a petto gonfio e pancia dentro, poi avrebbe cercato di comunicare in arabo alzando il tono della voce al primo sopracciglio alzato sul mio volto, poi avrebbe cercato di ripetere più lentamente e infine se ne era capace avrebbe cercato di comunicare in francese, senza comunque riuscire ad uscirne fuori in qualche modo; capendo che non può esserci comunicazione verbale avrebbe cominciato a gesticolare con le mani diminuendo la distanza tra i corpi ma cercando allo stesso goffo modo di non sembrare troppo aggressivo, sforzandosi allo stremo delle sue forze, fino a quando non avrei dato il segnale visivo che mi fidavo e che allora potevamo stringerci la mano.
Le donne (perchè fortunatamente Aasmae non è stata l'unica) non hanno bisogno di chiedere conferme, sanno già che tra donne ci si può fidare, è per questo che il loro modo è veloce, schietto, ma allo stesso tempo delicato, non aggressivo. Mi piacerebbe scoprire tutto su di loro, ma bisogna avere fortuna perchè la comunicazione riesce meglio se la stanza non è troppo affollata.
I bambini non hanno sesso, e non ce l'hanno semplicemente perchè non hanno giocattoli che distinguono i ruoli di genere, il più grande è responsabile del minore e così via.

Le domande che ci facciamo sono sempre le stesse e forse sono anche lo specchio della società in cui siamo abituati a vivere, io chiedo loro come vivono, quali i compiti degli uomini, quali quelli della donna, come si vive in una famiglia, cosa c'è fuori dal Sahara per loro, a loro sembra fondamentale invece chiedere se sono sposata, del resto non importa.

Mi offrono da bere (devo sempre rifiutare a meno che non sia qualcosa che ha passato qualche minuto a 100°), una volta solamente ho bevuto qualcosa id diverso dal tè, sembrava latte, ma non ho mai capito che fosse (bianco, molto aspro e intenso), questo per me vuol dire molto in un posto dove l'acqua è razionata, mi sento in colpa perchè bevo da una bottiglia di plastica con sopra il logo della Neslè che probabilmente ha comprato tutti i loro bacini idrici (non ho trovato di meglio); mangiamo tutti assieme (ovvero gli uomini in una stanza e le donne in un'altra) dallo stesso grande piatto, con le mani che non si possono lavare perchè l'acqua serve per essere bevuta, a volte mi chiedo se quello che sto mangiando è un avanzo del giorno prima, oppure quando i miei denti tritano qualcosa di più solido mi chiedo se siano gusci di uova o che altro, perchè qua non si butta via niente, mi piacerebbe imparare cosa vuol dire riciclare, perchè anche il cibo si ricicla; quando cucinano un pollo è come quando mia nonna mi raccontava che da piccola lei si mangiava tutto, non si buttava niente, anche io ho mangiato tutto e non sono un'amante delle viscere animali, ma la naturalezza viene dal contesto, sono convinta che se lo mangiano loro posso mangiarlo anche io, in fondo il disgusto è quella sensazione che viene meno quando si ha fame; dormiamo sotto lo stesso tetto, anche perchè di tetto la maggior parte delle volte ce nè uno solo, che fa da cucina, da soggiorno e da camera da notte. In quel momento siamo esattamente uguali e non ci sono domande quando l'indomani vado via, ci sono solo loro in fila che salutano e sanno già che non ci vedremo o sentiremo mai più, ma la vita andrà avanti e non si rendono conto di tutto quello che mi hanno regalato.



MERZOUGA 

Per me il nome di questo posto significa la fine della prima parte del viaggio, per chi ci vive significa l'ultima oasi prima dell'infinito deserto di dune, per chi ci arriva in bus significa giro in cammello, notte in tenda e rientro in albergo per poi andare via.

Ci sono due incontri fondamentali che faccio a Merzouga

Il primo è con Mohammed, che poi è il cugino del famoso Hassan.
Se ricordate il giorno in cui sono arrivata a Marrakech mi è stato proposto in tutte le salse, per questo non mi fidavo di questo incontro, ma le cose sono cambiate rapidamente e capisco che l'insistenza dimostrata in precedenza è un fraintendimento da parte mia, queste persone vogliono che io sia ospite a casa loro, perchè è nella loro cultura accogliere i viandanti, non c'è uno scopo economico o di altro genere.
Ci riconosciamo, io perchè ho una bici e puzzo di scimmia morta, lui perchè indossa un vestito blu e un turbante in testa, che ovviamente è come darsi un appuntamento in Italia dicendo ci vediamo in quella piazza dove c'è una chiesa e un bar all'angolo, infatti mi riconosce lui.


Eppure l'appuntamento ce lo siamo dati il giorno prima, perchè la comunicazione telefonica comincia a dare problemi, penso che a Roma se non confermi un appuntamento un'ora prima non trovi nessuno li ad aspettarti.
Non ci speravo ma eccolo in piedi all'ingresso della "città" che agita le braccia.
Parla inglese, è una fortuna, altrimenti la metà delle cose che ho scritto le avrei potute solo immaginare o dedurre dai gesti; a dire il vero parla correttamente 4 lingue anche se gli ultimi ricordi della scuola risalgono a quando aveva 8 anni.
Mi spiega che lui è un nomade, o meglio appartiene ad una famiglia di nomadi, quella di Hassan.
Non ho avuto il coraggio di chiedere quale sia lo scopo di una vita nomade che gira intorno alle dune in mezzo al Sahara, ma ho scoperto che il loro ciclo è di 7/10 giorni, dopo di che tornano a Merzouga o in qualche altra oasi per recuperare cibo, acqua e cammelli.
Ognuno di loro è indipendente e decide da se, fin da piccolo, quale la strada da prendere.

Negli ultimi decenni, con un picco clamoroso degli ultimi anni, Merzouga è cresciuta in maniera esponenziale, i numeri della popolazione sono rimasti gli stessi, il turismo invece ha avuto un incremento tale da richiedere l'intervento della commissione della World Heritage List in merito al fenomeno che sta prendendo piede, così che probabilmente entro i prossimi anni Merzouga diventerà parco nazionale e non sarà più possibile girare da soli tra le dune (per questo dobbiamo ringraziare sempre chi non sa comportarsi in modo maturo in posti dove il controllo delle forze dell'ordine è inesistente).
Facendo due calcoli veloci significa che se prima era possibile svolgere una vita nomade in completa autonomia adesso è diventato difficile che tutta la famiglia possa completare i cicli di viaggio nel deserto, perchè il costo della vita è aumentato di conseguenza.
I cammelli sono la risorsa economica principale degli abitanti di Merzouga, uno di loro può vivere fino a 30 anni e come nel più banale degli immaginari possibili sono oggetto di scambio e baratto (devo dire in modo meno romantico, a volte solo di moneta).
Mohammed possiede 5 cammelli, una quota scarsa per una famiglia numerosa come la sua (non sono riuscita a contarli), ma li sfrutta al massimo affittandoli a prestigiosi resort sorti negli ultimi tempi. Ha rinunciato temporaneamente alla sua vita ordinaria per darsi agli "affari" perchè quello che è necessario non si discute. Alla mia domanda se ha mai pensato di andare a vivere in una città vera risponde che l'ultima volta che è uscito fuori dall'Oasi è stato nel 2013 quando necessariamente ha avuto bisogno di un medico e che per il momento i suoi progetti non sono diversi da quelli del quotidiano, la sua età oscilla tra i 25 e i 27 anni.
Mi propone di partire per un ciclo nomade di 8 giorni perchè quel pomeriggio inizia il viaggio, e io a malincuore devo rinunciare a quella che probabilmente sarebbe stata una bellissima esperienza (mi ha detto che comunque posso tornare quando voglio e sicuramente lo farò), però non rinuncio a un piccolo viaggio nel viaggio, quindi il pomeriggio stesso partiamo per passare una notte in mezzo alle dune.




Senza perdermi nella descrizione dei colori e della densità della sabbia che potete trovare in qualsiasi libro a tematica Sahara scritto da esperti, voglio invece raccontarvi di quella notte.

Partendo verso le 3 del pomeriggio ci fermiamo solamente al tramonto. Quello di cui rimango veramente sorpresa è il senso dell'orientamento di Mohammed; sa esattamente dove sta andando, anche se stare li in mezzo è come trovarsi persi al centro dell'Atlantico, senza punti di riferimento. Ovviamente gli chiedo come faccia e ovviamente mi risponde che non lo sa, ma immagino questi siano i segreti di famiglia, non posso pretendere che mi venga svelato tutto.
Sa pure che entro il tramonto arriveremo dai nomadi che intanto hanno piazzato il loro accampamento e sono pronti per cucinare (indovinate cosa?).
Prima di cenare mi allontano un attimo, essendo nel mio profondo un'inguaribile solitaria, quello spettacolo è troppo bello per non godersi almeno qualche ora di beata solitudine in compagnia della sola luna che fortunatamente per me è al massimo della sua pienezza.
Loro dicono che sono stata sfortunata, se trovavo la luna nera quello spettacolo sarebbe stato ancora più emozionante perchè mi avrebbe permesso di ammirare la via lattea in prima fila, io dico che l'ho già vista, non è la prima volta che mi trovo in mezzo a un deserto e che mi sento fortunata invece a poter vedere di notte, si, perchè la luna fa talmente tanta luce che tutto intorno è illuminato e perfettamente visibile.
Ciò mi permette di allontanarmi e perdermi da sola in quell'oceano infinito e come sempre, ogni volta che mi trovo in queste situazioni mi sale un brivido lungo tutto il corpo, è adrenalina, la peggiore delle droghe, per questo continuo ad andare per deserti.
Quello è il mio Atlantico, ci somiglia davvero, perchè le dune disegnano onde immobili che alla luce della luna ricordano il blu dell'oceano, alcune dune sono talmente alte che portano alla mente immagini di tempeste oceaniche, però immobili, è per questo che è un paesaggio assurdo, nessun rumore intorno, i piedi sprofondano nella sabbia fredda, nessun uomo in vista, sono li, non so bene dove e penso che se camminassi per qualche chilometro non seguendo nessuna direzione probabilmente nessuno mi troverebbe più; qualcuno mi chiama da lontano, molto lontano, non pensavo di aver camminato così tanto, è Mohammed, si stava preoccupando, mi dice che il fuoco è spento che adesso si mangia, mi riporta brutalmente alla realtà che comunque non è così male.




Mangiamo tutti assieme, vorrei catturare bene le immagini di quei nomadi, ma la smania di tornare a scalare le dune è troppa, quindi rendo gli altri partecipi del mio desiderio e Mohammed mi dice che questa volta viene con me.
Non so quanto tempo abbiamo passato a camminare li in mezzo, però quando torniamo alla base siamo distrutti. Il cammello con una zampa legata ci osserva, sdraiato sulla sabbia, immobile. Togliamo le coperte dalla sella e ci sediamo con la schiena sulla sua pancia. 
Il mio corpo si muove e segue il ritmo del respiro del cammello, diventa una danza e sento il mio complice accanto che parla e capisco in fondo il motivo per cui non vuole vivere lontano da quel posto, chiudo gli occhi e non ricordo il momento esatto di quando mi addormento, e io che ho paura dell'acqua e degli orizzonti infiniti non avrei mai pensato di sentirmi così al sicuro dentro un oceano.




Italian Coast to Coast from Roma to Pescara

"In natura un contorno non esiste, dunque la forma disegnata dall'artista non è un elemento realistico, ma una sorta di spettro"

G. De Chirico

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