martedì 13 dicembre 2022

Una parentesi nel viaggio (parte terza): il rientro a Dushambe

Un villaggio composto da quattro case in croce e una ventina di abitanti deve per forza contenere al suo interno un certo grado di parentela tra i vicini. E' per questo che la ragazza che ci ha ospitati dopo il teatrino in piazza era la nipote da parte di padre della signora che aveva cercato di derubarci chiedendo 20 euro a testa per una notte. E io questo potevo immaginarlo. Dico solo che alla giovane ragazza, di nome Jumagul, è stato riportato un colorito racconto su quanto avvenuto poco prima di incontrarla, che comprendeva anche un epiteto non proprio simpatico di vecchia megera alla sua cara nonna.

Detto ciò, il mattino successivo ci dirigiamo verso nord, e non potendo proseguire in bici, decidiamo di lasciarle in custodia alla nostra gentilissima ospite, con la promessa che saremmo tornati il giorno seguente per recuperarle e togliere il disturbo.

La valle del Bartang, come già accennato prima, si sviluppa in seno all'omonimo fiume che attraversa le montagne fino al lago di Karakul, qualche centinaia di km più avanti, a confine con il Kyrgystan. 
I villaggi principali si snodano lungo l'ansa per 20km prima di arrivare nell'entro terra, per poi lasciare spazio solamente alla natura desertica delle montagne. La nostra destinazione si trovava dall'altra parte del fiume, raggiungibile attraverso un ponte tibetano a pochi metri dall'acqua. 
La storia racconta di come un'inondazione qualche anno prima abbia distrutto il primo villaggio che si trovava attraversato il ponte, per cui ci fu una conseguente ricostruzione di questo a un'altra ventina di chilometri addentrandosi verso est.






Il perchè si decide di andare a far visita a questi posti, trova una sua risposta intrinseca nella natura stessa di chi ha progettato di perdersi nei luoghi. Un villaggio totalmente isolato dal mondo, collegato alla vita al di fuori dalla montagna da un percorso sentieristico e un ponticello tibetano, deve per forza celare una natura affascinante, affascinante proprio perchè non la si può immaginare con gli occhi di chi una natura del genere non la conosce ed è per questo che è necessario abbandonare ogni sovrastruttura occidentale per immergersi in certe esperienze.

Il villaggio che sto descrivendo non ha nemmeno un nome, o meglio, ne ha molti, ognuno lo chiama e descrive a modo suo. E' composto da 5 abitazioni in pietra e circondato da una miriade di alberi di albicocco, tanto che per me rimarrà sempre il villaggio delle albicocche. 
Qui il pasto principale consiste appunto di albicocche e qualche prodotto proveniente sempre dalla terra, quali cipolle, patate, ortaggi stagionali; non si trova nemmeno del sale, tanto che quello che ho mangiato aveva un sapore di dolciastro. 













Non troviamo difficoltà nell'essere ospitati in cambio di notizie riportate dall'esterno, ma ho notato anche non troppa curiosità nel conoscere i risvolti politici della propria terra; forse se si è deciso di vivere così isolati dal mondo il motivo sta proprio nel non voler conoscere il mondo. 
Sembrerebbe quasi un micro universo all'interno del nostro più grande, ma inquinato universo; e il chiedermi se potrei mai vivere in un determinato modo mi ha accompagnata negli attimi prima di prendere sonno, con l'ovvia e scontata risposta che non mi è possibile farlo, e probabilmente il luogo in cui nasci determina inesorabilmente il destino dei tuoi interessi, e i miei sono totalmente compromessi dal fatto che gli stimoli ricevuti da un mondo occidentalizzato non coincidono con quelli di un piccolo mondo antico, e quindi ci dormo su, sapendo che l'indomani mi avrebbe aspettato una lunga scarpinata per recuperare la bici e la folle corsa per il rientro a Khorogh.

Il giorno seguente, arrivati alla stazione dei taxi di Khorogh, con non poche difficoltà rilegate al fatto che l'estate del 2022 non aveva visto questo incremento di turismo che il Tajikistan si sarebbe aspettato dopo due anni di chiusura a causa della pandemia, siamo riusciti a contrattare un passaggio alla capitale, stipati in una macchina con altre 8 persone, per un viaggio di rientro di 15 ore e una sosta, anzi tre, perchè due volte li ho obbligati ad accostare per aver rimesso l'anima, visto che il mio amore per i viaggi in macchina si misura attraverso il mio malessere.




P.s.: la mia bici, già provata da tutta la strada non adatta alla sua geometria, si è finita di disintegrare durante il viaggio in macchina, ed io ero consapevole, ma non sono riuscita a convincere l'autista che forse non era proprio un incastro perfetto quello che stava pazientemente effettuando sopra il tettuccio della macchina 




Non è stata casuale la scelta di voler partire dalla fine, per raccontare di questo viaggio nel centro dell'Asia. 
Perchè tutte le cose che racconto, sul partire scarichi da pregiudizi, del viaggiare in punta di piedi, del perdersi nei luoghi, del lasciarsi trascinare dalla casualità degli eventi e degli incontri, non sono obiettivi che si raggiungono nell'immediato, io ho bisogno di adattarmi, ogni volta che decido di partire, di essere prima di tutto sicura che le mie scelte ogni singolo momento del viaggio siano quelle che mi permetteranno di non sentirmi in alcun modo scoperta, e ogni tanto posso sbagliare, ma l'importante per me è sempre tornare a casa diversa da prima, ancora più convinta che viaggiare è necessario, altrimenti tutto questo che senso avrebbe?

lunedì 12 dicembre 2022

Una parentesi nel viaggio (seconda parte): nella valle del Bartang

 Ci sono due strade che da Dushambe portano a Khorogh.

C'è la strada che si snoda a nord e attraversa un passo a 3.000m, dislocata su dei tornanti che salendo lentamente vanno a morire a ridosso di piccoli villaggi, trasformando l'asfalto in cumuli di rocce ghiaiose, simili a quelle del letto di un fiume, dove a volte la stessa strada si fa talmente stretta e tortuosa da permettere il passaggio solamente a dorso di un asino, che tra l'altro è l'unico mezzo che gli abitati utilizzano per spostarsi tra un villaggio e l'altro. Se si decide di proseguire per questa strada si deve tener conto che qua il tempo sembra essersi fermato al primo dopoguerra: non c'è luce, non c'è gas, c'è solamente l'acqua potabile che sgorga dai torrenti che dalla cima del passo a valle rendono l'area ricca di coltivazioni stagionali; gli abitanti dei piccoli villaggi trascorrono le giornate lavorando i campi e pascolando il bestiame, nessuno si aspetterebbe mai che possano essere minimamente in contatto con il mondo fuori da quelle montagne, e infatti è così che si ritrovano a parlare un idioma tra il russo e il persiano che ha avuto modo di definire ancor di più questo gap temporale con il resto del mondo. E' la strada che ho scelto di percorrere, una scelta che poco è stata pensata, ma che come le cose poco studiate ha portato con se enormi soddisfazioni, bellissimi ricordi, ed esperienze costruttive.

Sempre la meravigliosa cartina disegnata a mano per voi per semplificare e capire meglio la geografia





Poi c'è la strada che passa da sud, che non si può definire propriamente asfaltata, ma che comunque rimane percorribile dalle jeep che fungono da mezzo di trasporto per chiunque abbia bisogno di raggiungere la capitale o spostarsi verso le montagne dell'est. Qua, anche se non si può propriamente parlare di cittadine, ma più di centri abitati, abbiamo una rete stradale che comunque li porta verso l'esterno e fa in modo che non rimangano del tutto isolati.

Le jeep che passano a sud, attraversano la Pamir da Dushambe a Chorogh impiegando un tempo medio di 15 ore per effettuare 500km di strada, in relazione a questo è possibile interpretare il significato di asfalto e quanto relativo possa essere l'aggettivo buono in riferimento alla condizione del manto, ma rimane comunque l'unica opzione per percorrere in macchina un tratto di strada che a nord sarebbe impossibile attraversare.

E' proprio alla fine di queste 15 ore di strada che stremati e confusi arrivano i miei nuovi compagni di avventura.


Capisco immediatamente che il loro viaggio in auto è stato dettato più da una necessità che da una scelta. Ogni speranza di un confine riaperto è infatti svanita nel momento in cui mi comunicano che non gli è stato concesso l'agognato permesso per attraversare la regione autonoma, o meglio gli è stato concesso temporaneamente per una settimana, tempo insufficiente a percorrere l'intero tragitto in bici e rientrare senza avere problemi con le autorità locali. Se per un attimo l'adrenalina era tornata in circolo e in un nano secondo avevo pensato alla possibilità di rimettermi in viaggio a completamento del progetto iniziale, altrettanto velocemente questa possibilità si è spenta una volta capito che 15 ore di macchina non si fanno per scelta, ma per necessità, quella di non sprecare la possibilità di vedere seppure in maniera differente da come la si era pensata quei posti che non sono di passaggio e che rimangono nascosti al turismo dei più.


Nonostante questo, non c'è voluto molto a convincermi che forse il Tajikistan poteva ancora offrimi un'ultima esperienza, in fondo era ancora presto per chiudere il cerchio e tornare alla capitale.

Quella sera stessa a cena, si parla di una possibile escursione nella Valle del Bartang, poco distante da noi, così decido di unirmi ai miei nuovi amici, che la mattina seguente avrebbero caricato le bici per avventurarsi in un trail di qualche giorno.

Che cosa è il Bartang?

Il Bartang è una valle che attraversa la regione nord est del Tajikistan, è attraversata da un sentiero che collega l'area di Khorogh con la regione di Karakul, praticamente è la strada che si biforca dalla Pamir e passa attraverso le montagne che vanno a morire nell'altopiano.

Il Bartang è una vallata talmente remota ed isolata che talvolta la strada si sgretola alla merce degli agenti atmosferici. Ogni forma di spazio antropizzato si perde alla fine di 50km di strada che si collegano alla principale e che fiancheggiano un fiume.







Pochissime parole e mi ritrovo già intenta a rifare i bagagli per il giorno seguente, in fondo nulla è mai concluso fin quando non ci si ritrova seduti sull'aereo di ritorno.

Non nascondo che io non sono propriamente la compagna di viaggio ideale, e l'idea di dover passare tre giorni in compagnia di altre due persone sconosciute, se inizialmente mi aveva esaltata e caricata di nuova energia, la mattina della partenza avevo già smorzato l'entusiasmo con la paura di non trovarmi a mio agio in una determinata situazione. Ma in fondo tre giorni su cinque settimane di viaggio non sono un'enormità, e in qualche modo mi adatto sempre.

Peccato che alla fine devo dar ragione alla mia natura di orso solitario.

Percepisco immediatamente che il testosterone nell'aria ha dei livelli esagerati e che quella che per me era una gita fuori porta si trasforma subito in una gara fuori pista. Cerco inutilmente di smorzare i toni, dal momento che sento parlare di km/h, tempi, pause programmate al minimo dettaglio, garmin che segnano e scandiscono la giornata; ovviamente con scarsi risultati, e trovandomi in netta minoranza decido allora di star zitta e far decidere al caso il destino di questo incontro.

Ci sono milioni di motivi per cui parto in solitaria, uno tra i tanti è di poter decidere per me quello che voglio, senza togliere a nessun altro la possibilità di fare la propria esperienza per come la si è pensata, e siccome alla fine di tutto non provo mai a far brillare le mie volontà, finisce sempre che faccio ciò che gli altri decidono per me, e poi ci rimango male. Ma ciò che più non tollero al mondo è la presunzione e il grado di approccio ad una cultura diversa dalla mia talmente tanto superiore da risultare maleducato, ma non voglio concentrare il racconto su quanto quello che è successo mi abbia messa in imbarazzo.

Poche chiacchiere e ritmo serrato arriviamo al bivio che poi si addentra nella valle. Oramai col sole quasi al tramonto, e stanchi dall'aver macinato più di 100km, decidiamo che è il caso di cominciare a cercare un posto per la notte. Arrivati all'ultimo centro abitato prima di passare sull'altra sponda del fiume e non trovare più nulla ci fermiamo a cercare quella che una vecchia guida della Lonley Planet, posseduta dai due, indicava come una guesthouse. Certo, la guida era datata, ma nessuno si sarebbe aspettato che la gente del posto potesse lucrare non poco sul nostro bisogno di un posto dove dormire e mangiare. Veniamo accolti festosamente e fastosamente come tre polletti da spennare all'interno dell'abitazione da quella che sembrava la padrona di casa, una signora di mezza età, molto affabile, dai modi imprenditoriali, che agitava un intruglio di zuppa che cuoceva su una vecchia stufa a legna. Ci vengono chiesti 20 euro a testa per una cena e un materasso a terra. Trattandosi dell'unica abitazione segnalata sulla guida la signora aveva fatto i suoi conti, ma io avevo fatto anche i miei, e sinceramente ero disposta a pagare, ma per un prezzo onesto, che non superasse i 5 euro a testa, comunque un'enormità per i loro affari. Agito subito la testa e faccio cenno ai due, che sembravano ben disposti a pagare, di non accettare, perchè va bene tutto, ma farsi derubare anche no. 

Siamo stati evidentemente presi contro piede: il sole al tramonto, l'ultimo villaggio prima del nulla, nessun negozio disponibile, unica casa che si prestava a guesthouse in vena di affari. Avanzo per cercare di contrattare un prezzo più onesto per l'ospitalità, ma vengo subito scavalcata da uno dei due, che dopo essersi vantato delle sue esperienze in lungo e in largo per il mondo, mi chiede di farmi di lato perchè ci avrebbe pensato Lui. Sorrido, perchè so già che sarà una battaglia persa, ma decido di farlo provare, tanto avevo già in mente il piano B. La signora agita la testa e in modo secco e deciso risponde con un bel niet. Prendo per il braccio il mio amico e gli chiedo di non insistere, perchè sarebbe stato solamente tempo perso ed energie sprecate, gli chiedo invece di non disperare e di fidarsi e far fare a me la prossima mossa.

Introduco quindi la mia tecnica assodata di approccio all'ospitalità: chiedo ai miei compagni di sederci per terra sullo spiazzo principale del villaggio, proprio quello dove poco prima eravamo stati assaltati da un'orda impazzita di bambini, e aspettare non più di cinque minuti. La mia proposta non viene accettata volentieri, per cui chiedo ai due di farsi un giro e continuare a cercare, che alla fine distribuendo le energie prima o poi qualcuno ci avrebbe accolti.




Devo dire che la mia tecnica è ormai talmente tanto strutturata nel tempo da essere diventata infallibile. Non credo fossero passati nemmeno pochi secondi, quando si avvicina un signore, cerco di comunicare in una lingua dei segni piuttosto sgrammaticata, ma efficace, e mi fa cenno di aspettare un attimo. Vedo già i due amici che incuriositi da quello a cui avevano assistito decidono che forse la mia idea non era poi tanto malvagia e quindi si avvicinano. Pochi minuti dopo, mentre ormai divenuti attrazione principale del villaggio ci prestavamo alla goffa comunicazione a gesti, lingua ufficiale del viaggio, arriva il signore al quale avevo chiesto poco prima ospitalità accompagnato da un'altra signora. Faccio segno ai miei amici di non interferire nella comunicazione al fine di non far percepire l'alone di disperazione che trasudava dai nostri gesti ed offro alla signora 15 euro totale in cambio di una cena e un materasso a terra dove dormire la notte. Alla vista dei soldi tagiki il linguaggio corporale della signora induce a sperare in un determinato si certo, ma purtroppo lei non ha sufficiente spazio per ospitare tre puzzolenti individui in casa sua, per cui ci chiede di attendere un secondo perchè avrebbe di certo trovato chi poteva farlo al suo posto. Mi chiede espressamente di non seguirla, ed io ferma non faccio altro che guidarla idealmente col pensiero e sperare che arrivino buone nuove, anche perchè quella era l'ultima possibilità per poter mangiare qualcosa in quella giornata.

In questa foto rubata, l'attimo in cui la cara signora spiega alle donne del villaggio la nostra problematica, facendo riferimento al fatto che avremmo offerto un'indenne somma di denaro a riscatto degli avanzi del giorno e una stanza al chiuso. Uno sfuggente sguardo alle nostre gambe stanche e zozze e subito viene chiamata una giovane ragazza che con un sorriso e tanta voglia di comunicare ci fa cenno di seguirla verso casa.



Una specifica dovuta: non mi è mai capitato di dover pagare per essere ospitata e sono sicura che con un altro approccio e molta più empatia avremmo ottenuto lo stesso trattamento senza dover fare ricorso ai beni materiali. Poi la decisione di lasciare un piccolo contributo economico a chi ha aperto la sua casa e condiviso il suo cibo è sempre più che giusta, ma è più naturale, passa in secondo piano e non inquina il tipo di relazione che si viene a creare, anche solo per una sera. Ma per questa volta me la sono dovuta far andare bene così. 

Nella prossima e ultima parte di questa parentesi vorrei invece parlare di chi ci ha aperto casa dall'altra parte del fiume Bartang e di come siamo miracolosamente tornati a Dushambe contrattando un taxi condiviso, unico mezzo che utilizzano i locali, che in totale aveva 6 posti a sedere, con altre 8 persone, per un totale di 11 persone e 15 ore di macchina, ma si sopravvive a tutto, anche a questo















Una parentesi nel viaggio (prima parte): il rientro a Khorogh

La fine di questo viaggio, durato più di un mese nel centro dell'Asia, vuole essere l'epiteto perfetto e un'ode al mantra che da sempre mi accompagna durante questi raid ciclistici che fungono da terapia psicologica annuale.

Vorrei partire dalla fine e proseguendo a ritroso, o a salti temporali, ripercorrendo le tappe fondamentali che come sempre hanno permesso di adattarmi, più nel pensiero che nel corpo, a questa regione, che è stata centro di interesse sovietico e che tutt'oggi vive tra tensioni interne ed esterne una precaria situazione di stabilità politica, rendendola affascinante, multi culturale, dal carattere bruto ma dall'animo sensibile e vissuto di chi da sempre ha dovuto fare i conti con un ritmo storico dal sapore amaro.

Avendo il quadro della situazione sotto mano mi è più semplice adesso sviluppare un resoconto di quanto mi sono portata a casa, e scelgo quindi di raccontare la fine come naturale processo di un adattamento caratteriale alle montagne, ai deserti racchiusi in quelle montagne dell'altopiano asiatico e alla gente che vive questi spazi, immersa in un'atmosfera che conserva i sapori antichi di una civiltà rimasta all'abbandono della caduta dell'ex unione sovietica.


Anche se tornerò in seguito a parlare di come si è sviluppato il viaggio lungo la Pamir, mi sembra doveroso al fine di capire gli eventi, fare un piccolo sunto di come siamo arrivati a questo esatto momento, il momento in cui il viaggio finisce, e mi ritrovo ad accettare l'invito di una piccola escursione nei dintorni di Khorogh. 

Infatti appena finito il percorso che da Dushambe, capitale del Tajikistan, mi ha portata a Karakull, 30km dal confine Kyrgyso, dove una frontiera chiusa ha interrotto l'iniziale intento di concludere ad Osh, sono stata costretta a ripercorrere 500km a ritroso, obbligati sulla stessa strada, fino a raggiungere nuovamente Khorogh, la capitale della regione autonoma e pressappoco centro della Pamir Highway che da Dushambe porta ad Osh.

In questa meravigliosa ed efficace cartina semplificata con l'evidenziatore si mostra la strada di cui sto parlando






Chi è abituato alle passeggiate in montagna lo sa, la strada a ritroso non è mai la stessa; intanto cambiano i punti di riferimento cardinali, sconvolgendo il nord col sud e viceversa si ripercorrono delle strade che assumono tutt'altro sapore a seconda dell'intensità luminosa che li investe, e allora quelle cornici montuose assumono forme nuove e colori differenti; i prati dove si è trovato riparo qualche notte prima possono assumere una nuova struttura in base alle condizioni atmosferiche, e ciò che magari sembrava sicuro adesso viene visto con la consapevolezza di ciò che si è attraversato e può confermare o meno la sensazione di comfort che si è provato a dormire in tenda; ma tra le molteplici differenze che si possono trovare ripercorrendo una strada a ritroso ce n'è una che si avverte più forte delle altre, ed è la conoscenza della struttura stradale, e quindi dei rilievi del terreno, per poter dosare gli sforzi in base alle salite e le discese, la condizione del manto stradale, per cui le pause saranno dettate dalla consapevolezza che alcune difficoltà dipenderanno maggiormente da come le ruote si adattano al terreno, ma anche le persone che abbiamo incontrato lungo la via, che abbiamo salutato come se non dovessimo più incontrarle e che poi torniamo a trovare come fossero amici ormai assodati.


E allora dopo aver ripercorso la strada che dal lago di Karakul porta a Khorogh, ho deciso di tornare a dormire nell'ostello che mi aveva ospitato una decina di giorni prima.

Avete presente quella sensazione di endorfine, mista adrenalina, che viene chimicamente innescata dal nostro organismo dopo uno sforzo fisico? Ecco, alla fine di un viaggio, nel momento esatto in cui percorro gli ultimi metri, tutto questo fa si che nulla al mondo in quel momento possa farmi cambiare idea sull'aver concluso il viaggio, inesorabilmente e senza alcuna ombra di dubbio oramai finito e per nessun motivo intraprendibile nuovamente.

Infatti ciò che è stato dopo Khorogh (al rientro da Karakul), verrà definito come una piccola parentesi a conclusione di una bellissima esperienza.


La struttura che ospita il piccolo ostello alla periferia di Khorogh, non è nient'altro che un bungalow, proseguo dell'abitazione di una famiglia locale. Di posti dove dormire a Khorogh ce ne sono abbastanza e anche di molto economici, essendo il centro della Pamir, lungo la strada principale che è poi l'unica strada asfaltata della città, attorno alla quale si sviluppa il centro abitato, si trovano diversi motel destinazione dei camionisti che attraversano queste montagne. Ma la decisione di prendere posto in questo preciso ostello era stata dettata dal fatto che si trovava fuori dalla città, sul cucuzzolo di un promontorio, all'interno di una struttura in legno, in un posto quasi fuori dal tempo, e trovato tramite una ricerca su un sito di viaggiatori che lo consigliavano come punto di incontro per la gente zaino in spalla, ultimo ma non per ultimo in una via che di nome fa Gagarin J., nome per altro al quale sono molto affezionata.







Ed effettivamente dopo qualche ora dal mio arrivo, me ne stavo sdraiata sulla struttura al centro del cortile, che funge da divano e tavolo da pranzo, a ripensare a tutto quanto vissuto dall'inizio, cercando di non accavallare i pensieri e di fare mente locale su come raggiungere il Kyrgystan al quale dovevo comunque arrivare per prendere il volo di rientro in Italia, nonostante i confini chiusi, quando vengo sorpresa dall'arrivo di due tipi che scendono da un'auto scaricando delle bici gravel con relative borse da viaggio.

Rimango sorpresa da come alla fine di tutto vado ad incontrare due simili, e ancora prima di presentarmi, mentre rimango fissa a guardare le procedure di scarico dell'attrezzatura, si insinua dentro di me il pensiero e la speranza che forse hanno riaperto il confine, che forse adesso il GBOA è nuovamente protocollabile, che da questo momento in poi il traffico e le frontiere saranno aperte a tutti e che quindi il destino mi ha giocato questo brutto scherzo, che se solo avessi deciso di partire qualche settimana dopo adesso avrei potuto attraversare quel fossato e concludere per come avevo impostato il tutto, e forse ancora non era troppo tardi per farlo e sarei ripartita immediatamente.

Rimango ancor più sorpresa quando uno di loro due da lontano mi saluta con un preciso gesto della mano e mi dice “Ciao”.

Italian Coast to Coast from Roma to Pescara

"In natura un contorno non esiste, dunque la forma disegnata dall'artista non è un elemento realistico, ma una sorta di spettro"

G. De Chirico

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